Perché le nuove generazioni di farmacisti “snobbano” il lavoro in Farmacia?

Perché le nuove generazioni di farmacisti “snobbano” il lavoro in Farmacia?

Ormai è piuttosto evidente che un giovane laureato in Farmacia o in CTF, se riceve una proposta di lavoro da un centro di ricerca, da un ente di controllo o dall’industria farmaceutica, anche se lontano da casa, anche se con uno stipendio analogo, preferisce abbandonare il proprio posto di lavoro come dipendente all’interno della Farmacia.

Questa triste realtà mi è balzata drammaticamente dinnanzi agli occhi in questi ultimi anni, in cui, affrontando il cambio tra la vecchia e la nuova guardia di colleghi in Farmacia, mi sono reso conto di quanta poca voglia avessero le nuove generazioni di restare dietro al banco.

La nostra Farmacia, come penso la maggioranza, è una di quelle che tende a massimizzare il dialogo con i clienti, a personalizzare le terapie, a cercare di differenziare il lavoro attraverso il laboratorio galenico, a creare un rapporto di amicizia reciproco con incontri di aggiornamento e serate fuori dalla Farmacia e ad incentivare economicamente il lavoro. Eppure, l’attrattiva di un lavoro “diverso” resta prepotentemente forte da parte dei giovani colleghi ed è indispensabile chiedersi il perché.

Metto in fila alcune riflessioni personali, che spero facciano partire, come un incendio le riflessioni dei colleghi e di conseguenza un lavoro che possa riformare la facoltà di farmacia.

  • Prima considerazione ovvia. La facoltà è storicamente composta da una maggioranza di studentesse (rapporto classico, anche tra i laureati 70/30) Storicamente questo è stato interpretato come naturale tendenza del mondo femminile verso l’assistenza, un archè legato alla maternità, quasi un dato genetico. Per tali ragioni era inutile sprecare tempo con lezioni di psicologia o su come confrontarsi con i pazienti; tanto per cominciare il dialogo paziente dottore era tutt’altro che paritario, ma improntato su di un rapporto alto/basso. Lo stesso banco del professionista era rialzato rispetto al cliente, il quale poteva rispondere alle domande del professionista, con il dovuto rispetto. La lenta ed irreversibile presa di coscienza da parte del mondo femminile sulla non parità di genere ha scardinato questo palinsesto, che oggi definiamo culturale e non genetico Come tutti sappiamo, ancora lunga è la strada da percorrere, basta osservare la percentuale di laureate in Farmacia ed il numero di docenti universitari maschi nella facoltà; ma ormai l’aspirazione ai medesimi posti di lavoro è consolidata.
  • I farmacisti non sono l’unica figura professionale a mancare. Ancora più tragica in questi anni è la mancanza di nuovi medici. Se fino a pochissimi anni fa l’industria farmaceutica richiedeva nei posti di ricerca unicamente laureati in Medicina, oggi sceglie a piene mani anche laureati in Farmacia. Questa novità piace moltissimo ai neolaureati della nostra facoltà, che infatti vanno, se possibile in quella direzione.
  • L’improvvisa parità stabilita tra dottore e paziente è da un lato da festeggiare. Non si può più dire al malato: “Segui la mia prescrizione”, ma la si deve spiegare e farla accettare. Il paziente, poi, vuole essere giustamente ascoltato, dato che si rende conto che la fretta della visita rende spesso superficiale la diagnosi e quindi inutile la cura. D’altra parte, Internet rende il malato informato sulle malattie, quanto lo può essere un autodidatta su un qualunque argomento. L’autodidatta, per l’informazione non sistemica che riesce a mettere assieme, può sempre mettere in difficoltà il professionista, dato che su un singolo punto sa moltissimo, ma non è in grado di inquadrare le proprie conoscenze. Il risultato è che il professionista viene delegittimato ed il paziente, spesso, si cura male. Questa continua messa in discussione, di cui medici, insegnanti, giudici … soffrono quanto noi, porta molti colleghi a sentirsi non presi nella giusta considerazione nella propria professione, (anni di studio sprecati “per quattro lire”) preferendo rinchiudersi nella torre dorata della ricerca. Lì, almeno, il confronto sarà solo con altri ricercatori e se qualche esterno vuole commentare sono problemi suoi.
  • Fatte queste considerazioni, forse un po’ a tirar via, resta il problema di una facoltà ferma agli anni ’50, incardinata su strumenti chimici incomunicabili con i nostri pazienti e priva di una, seppur minima, apertura al mondo del lavoro. Se non è la facoltà a venirci incontro ed a chiedere cosa ci serve, penso, saremo noi a doverci muovere.

Dottor Tito Piccioni 

Coordinatore Commissione Scientifica MondoFarmacia

3 commenti

  1. Leo

    Resto sempre colpito da questi articoli… il motivo principale di carenza di farmacisti è legata alla poca o quasi nulla FLESSIBILITÀ oraria,all’indecenza economica, e al doversi confrontare con clienti/pazienti SACCENTI E scostumati, e non in ultimo nella maggioranza dei casi con dei TITOLARI/Imprenditori che non riescono a fare entrambe le cose… anche perchè hanno lo stesso titolo di studio e formazione dei collaboratori ma sono investiti di un ONERE che non è supportato da una preparazione ECONOMISTA E QUINDI si limitano a fare GARE DI SCONTI!!!!
    Ma di cosa parliamo
    Ben vengano le societá che COMPRANO LE FARMACIE CI METTONO I SOLDI E LASCIANO GESTIRE AL FARMACISTA LA FARMACIA!

    1. Tito

      Buongiorno Leo e buongiorno Antonio,
      mi pare che le argomentazioni, che in modo e con stili differenti proponete, in risposta all’articolo della Commissione Scientifica non siano nella sostanza così distanti dalle mie.
      L’Università non forma, in modo adeguato e soprattutto differenziato, i colleghi.
      Il rapporto con il pubblico è reso difficilissimo da false conoscenze sanitarie imparate su internet, ma anche dall’impreparazione a comunicare. Tutti sappiamo parlare, ma comunicare con un malato, esasperato dalla sofferenza personale e dalla mala sanità è molto più complesso.

      Lo stesso vale, direi, comunicare correttamente tra titolari e colleghi collaboratori.
      Il muro del noi / voi deve essere, a mio avviso, abbattuto.
      Il nostro gruppo è, e vuole essere “misto”.
      La mancanza di una carriera all’interno del lavoro, un contratto scandalosamente invecchiato sono tematiche fin troppo evidenti a tutti e la riflessione voleva andare un po’ al di là dell’ovvio.
      La dialettica “Titolare” ricco e figlio di papà e “Collaboratore” disinteressato alla professione lasciamola perdere, non ci porterebbe da nessuna parte e non ci aiuterà a crescere.
      Ci sono colleghi poco professionali da entrambe le parti, ma sono pur sempre una minoranza esigua e se il titolare è dispotico e segue una strada puramente commerciale e non etica, oggi, per fortuna, non si fa più fatica ad abbandonarlo a lavorare da solo.
      Comunque grazie dei vostri interventi.
      Tito

  2. Antonio

    Io mi chiedo, perché continuate a fare finta di non sapere la risposta ad una domanda che definire ormai sciocca sarebbe un complimento.
    Sapete benissimo quali sono le cause.
    1 mancanza di una retribuzione adeguata. Mancano almeno 400 euro al mese da quella che sarebbe una paga adeguata
    2 mancanza totale di carriera.
    3 titolarità riservata solo ai ricchi.
    4 sempre più mansioni ma nessun adeguamento.
    5 realtà dittatoriali diffuse
    6 orari ingessati e per nulla flessibili

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