Alzheimer: una corsa contro il tempo

Alzheimer: una corsa contro il tempo

Di Flaminia Turi

“Se c’è un modo in cui la mia mente e la sua continuino a comunicare io lo devo trovare”. Questo è il pensiero di Chicca, moglie di Lino, che in “Una sconfinata giovinezza” di Pupi Avati, sa già quanto sia destinata a cambiare la loro vita dopo la diagnosi di Alzheimer di suo marito. Il pensiero di Chicca è quello di tutti coloro i quali si trovano ad assistere un familiare affetto da demenza.

Stando agli ultimi dati forniti dall’Istituto Superiore di Sanità nel settembre 2023, in Italia oggi sono circa 600.000 i pazienti affetti dal morbo di Alzheimer, quasi la metà delle 1.100.000 persone nel nostro Paese colpite da una forma di demenza.

Una malattia subdola, complessa, che si insinua nella quotidianità e ferma il tempo, annebbiando il passato e distorcendo il presente. I riferimenti vengono meno, le parole mancano e nulla è più familiare, i volti e i luoghi di una vita sembrano sconosciuti e il progredire e il regredire si confondono, rimescolando continuamente i riferimenti. Come centinaia di foto sparse sul pavimento, tutta l’esperienza del mondo maturata si dissolve in tanti frammenti sconnessi e i ricordi si disperdono in una dimensione dilatata, sospesa in quel flusso comune perfettamente scandito dal tempo.

Eziopatogenesi

Se potessimo osservare cosa accade in un cervello affetto da Alzheimer, vedremmo intere aree neuronali interessate da un profondo stato di sofferenza, circondate da matasse proteiche di beta-amiloide, a loro volta accerchiate da cellule infiammatorie.

Placche di beta amiloide e grovigli neurofibrillari di proteina tau rappresentano le lesioni cerebrali, che definiscono il quadro neuropatologico della malattia di Alzheimer.

I grovigli costituiscono dei veri e propri nodi, che interferiscono nella comunicazione interneuronale, e la  loro posizione definisce lo stato di avanzamento della patologia, con conseguente peggioramento della sintomatologia. Nelle fasi iniziali della malattia, infatti, hanno localizzazione limbica, mentre nello stadio avanzato sono rilevabili nella corteccia associativa, nei nuclei subcorticali e nel tronco encefalico.

Questo stato generale di infiammazione danneggia il cervello, lo deteriora, lo altera nella forma e nella funzionalità, provocando il collasso del suo sistema; le cellule neuronali iniziano a funzionare male, la comunicazione è imprecisa e diventa discontinua la trasmissione delle informazioni, utili a elaborare i ricordi, i piccoli gesti, le abitudini di sempre.

È come se il cervello cedesse lentamente sotto la crescente pressione di queste masse infiammatorie di beta-amiloide e di proteina tau, responsabili dell’attivazione delle cellule gliali e del conseguente rilascio di altri fattori tossici, causa di morte neuronale. Un circolo vizioso che si auto-alimenta e che non si riesce ad arrestare. È uno scontro impari, con un finale ingiusto.

Sappiamo sempre di più di questo nemico, come si muove, come ferisce, riusciamo quasi a circoscrivere quell’arco di tempo in cui deciderà di attaccare, ma non sappiamo ancora come prevenirne l’aggressione e arrestarne l’avanzata. Ma l’ostinazione umana non conosce sconfitta e di fronte a sfide sempre più grandi la scienza non si è mai tirata indietro.

Gli ultimi risultati: il test pTau217

Sono stati resi noti pochi giorni fa i risultati dello studio pubblicato dalla rivista “JAMA Neurology” relativi alla possibilità di fare screening precoce mediante il test pTau217, sviluppato dalla società californiana ALZpath, che prevede un semplice prelievo ematico volto a rilevare la presenza di tau fosforilata al residuo 217, uno dei più promettenti biomarcatori dell’Alzheimer, le cui variazioni sono riscontrabili già molti anni prima della comparsa dei sintomi della malattia.

Attualmente l’unico modo per identificare i depositi cerebrali di beta-amiloide e di proteina  tau è sottoporsi a una scansione cerebrale (PET) oppure a rachicentesi, due procedure spesso inaccessibili e particolarmente costose.

Il test, invece, presto disponibile a uso clinico, non prevede alcuna puntura lombare ma il prelievo ematico e, a un prezzo compreso tra i 200 e i 500 euro, offre un’accuratezza diagnostica paragonabile a quella del test del liquido cerebrospinale.

Le terapie farmacologiche

I farmaci attualmente disponibili appartengono a questo millennio: nel 2000 vengono approvati gli inibitori della colinesterasi, Donepezil, Rivastigmina, Galantamina, progettati per sottrarre l’acetilcolina alla degradazione enzimatica e compensare la perdita neuronale, mentre nel 2003 arriva la Memantina, impiegata nella fasi più severe della malattia, per bloccare l’interazione recettoriale del glutammato che, accumulandosi e depositandosi, diventa potenzialmente tossico. Antipsicotici e antidepressivi supportano questi farmaci nella costruzione di una articolata politerapia, non esente da effetti collaterali, che fonda la sua efficacia nella tempestività della diagnosi.

Ma l’Alzheimer è una malattia complessa e, come tutti i problemi complessi, richiede una risposta articolata e non scontata.

Le terapie alternative

Ne “L’ arte della Guerra” si legge: “È prassi consolidata che, in battaglia, s’incrocino le armi secondo strategie convenzionali, ma è da quelle non convenzionali che sortisce la vittoria”.

«In assenza di risposte terapeutiche risolutive – sostiene Mario Possenti, segretario generale della Federazione Alzheimer Italia – diventa sempre più importante il “prendersi cura” della persona malata per migliorarne la qualità di vita sotto tutti gli aspetti. In questo senso, vengono utilizzate terapie non farmacologiche che hanno lo scopo di mantenere il più a lungo possibile le capacità residue del malato.

Si parla di “terapia occupazionale”, affidata a professionisti che forniscono ai familiari e ai caregiver consigli su come gestire un malato in casa, indicazioni di tipo pratico su come assisterlo in ogni momento della vita quotidiana in diversi ambienti e nelle differenti fasi della malattia.

Esistono poi la “stimolazione cognitiva”, che potenzia le funzioni mentali residue, la “Rot” o “Reality Orientation Therapy”, che cerca di mantenere il malato aderente alla realtà che lo circonda, la “Validation Therapy”, che cerca di capire i motivi del comportamento del malato, la “musicoterapia”, che riporta a galla con le emozioni le parole di una canzone o il suono di uno strumento, la “psicomotricità”, che aiuta il malato ad affrontare la propria disabilità con attività di movimento, la “Pet Therapy”, che si avvale della compagnia degli animali, e altre modalità di intervento atte a migliorare la qualità di vita del paziente».

Dall’Olanda il modello di Hogewey

Nel 1993 Yvonne van Amerongen, infermiera in una casa di cura tradizionale, si pone una domanda: “Quanto l’avanzare della malattia dipende dalla sua progressione e quanto dal modo in cui viene curata?” Inizia, così, a riflettere su una possibilità alternativa di contenere gli effetti dell’Alzheimer, immaginando un modello di “cura”, che ha le sue potenzialità nel luogo più che nei mezzi, in una casa più che in un ospedale. Yvonne dà il via a una raccolta fondi che, anche grazie al sostegno dello Stato, culmina nel 2009 con la nascita di “Hogewey”, un villaggio dedicato a chi ha perso la memoria. Siamo nel comune di Weesp, a 15 minuti da Amsterdam dove, su un terreno di 1,5 ettari, sorgono 23 casette, ognuna delle quali ospita 6 o 7 dei 152 abitanti che, oltre al personale, costituiscono questa piccola comunità olandese. Ma non dobbiamo immaginarlo come un villaggio residenziale; a Hogewey, infatti, si possono trovare  un supermercato, un ufficio postale, una farmacia, una palestra, un ristorante, un cinema (che trasmette solo film d’epoca, perché più lenti e comprensibili),  e diversi circoli, tra cui quello degli scacchi, del giardinaggio, del bricolage, della pittura e della musica, solo classica o tradizionale olandese, più lenta e rassicurante. All’interno del villaggio i pazienti possono circolare liberamente e i loro parenti possono iscriverli alle diverse attività presso l’ufficio turistico, comprese gite fuoriporta alle quali, per la loro sicurezza, partecipano sempre accompagnati. Non ci sono telecamere, solo una reception, che monitora gli ingressi, e un sistema di controllo acustico, che entra in funzione automaticamente alle ore 22.00.

Se Hogewey rappresenta un modello, che attira studiosi da tutto il mondo ogni anno per le sue possibilità di realizzazione, non manca, però di rimarcare la sua origine fiamminga: nel villaggio, infatti, esistono ben 7 tipologie di abitazione: la “tradizionale”, tipicamente olandese e prediletta da ex artigiani e commercianti, la “upper class”, per chi era abituato a una vita più agiata, la “urban”, per chi viveva in città, la “homeley”, per gli amanti delle torte e delle confetture, la “culturale”, piena di libri e di strumenti musicali, la “cristiana”, per i più essenziali e religiosi, e la “indonesiana”, per gli immigrati delle ex colonie olandesi.

Ogni paziente al momento dell’ingresso in struttura può scegliere quale stile lo rispecchia maggiormente e come personalizzare la sua nuova casa con foto, effetti personali e qualche mobile, a rafforzare la “terapia del ricordo”. La volontà non è quella di differenziare in classi i suoi residenti, ma di far sentire ognuno letteralmente “a casa”, in un ambiente accogliente e confortevole, disegnato sullo stile dell’epoca in cui la memoria a breve termine di ognuno si è fermata. Tutto è familiare, conosciuto, comprensibile, perché se è facile sentirsi estranei fuori casa, fa ancora più paura sentirsi estranei in casa propria. In ogni abitazione vivono anche uno o due infermieri, vestiti, però, in abiti civili, perché a Hogewey non esistono i “camici bianchi”, e i medici, che vegliano sui residenti, sono vestiti da commessi, cassieri, giardinieri, parrucchieri. Immagini di una quotidianità serena e non malata dove, però, nulla ha una costo, nulla è a pagamento. Non c’è scambio di denaro in nessun negozio e non ci sono numeri sulle pulsantiere degli ascensori, semplicemente si sale e si scende; perché si sa, i numeri possono confondere.

Eloy van Hal, direttore di Hogewey ricalca le dinamiche del teatro per descrivere questo piccolo mondo antico: «Il palcoscenico è quello che per i pazienti è la vita normale, la loro casa. Ma dietro le quinte, siamo una casa di cura. Tutto è organizzato per dare agli abitanti le cure di cui hanno bisogno. Per loro è come vivere una vita normale: pensiamo che questo sia molto importante. Ma i malati non si sentono affatto presi in giro, ed è questo che conta. Non esiste una cura per l’Alzheimer, ma abbiamo notato che qui da noi le persone sono molto meno aggressive, fanno uso di molti meno farmaci: è un traguardo. Non possiamo intervenire sulla malattia, ma possiamo migliorare la loro qualità di vita».

Per quell’innata tendenza a etichettare tutto ciò che non si conosce, il villaggio è stato bollato dai più scettici come “Dementia Village”, ma anche come una versione reale del film “The Truman Show”, dove un inconsapevole Jim Carrey scopre che tutta la sua vita è al centro di un reality show, in cui ogni istante scorre sotto l’occhio cinico e divertito di un pubblico affamato di televisione e di quel sottile confine che separa realtà e finzione.

Ma se questa “finzione” protegge i pazienti, ne migliora i disturbi comportamentali e solleva i familiari dal peso psicologico del fornire assistenza, quanto può essere giusto interrogarsi sull’autenticità di questo mondo? Alla ricerca farmacologica oggi si affiancano nuove soluzioni terapeutiche accomunate dalla stessa finalità: contrastare la solitudine e il conseguente distacco sociale. Ci muoviamo tutti sulla stessa linea temporale, ma malattie come l’Alzheimer, hanno il potere di cristallizzarne l’avanzata, provocando uno scollamento dal binario comune e un isolamento psico-emotivo che accelerano la degenerazione della malattia. Il dizionario Garzanti definisce così il termine tempo: “successione continua di istanti in cui si svolgono gli eventi e le variazioni delle cose”.

Come Chicca, siamo alla continua ricerca di un modo per non spezzare il filo comunicativo che lega i pazienti alle loro famiglie e alla comunità, per affiancare il loro mondo e agganciare il nostro presente al loro, perché non si fermi il tempo e la sua successione di istanti.

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